TGIF – Book Whispers #43: I libri consigliati di questa settimana

Giuro solennemente di avere buoni consigli…

È giunto il momento di tirare le somme! Questa settimana, fra i vari protagonisti, ho deciso di sceglierne tre particolari, due che volevo assolutamente recuperare e uno che si è rivelato una piacevole sorpresa. Prima di cominciare vi ricordo di passare da Sara (Bookspedia) per scoprire i suoi consigli letterari di questa settimana. Pronti per il Book Whispers?

Hotel Silence di Audur Ava Ólafsdóttir

Pagine: 188
Jónas ha quarantanove anni e un talento speciale per riparare le cose. La sua vita, però, non è facile da sistemare: ha appena divorziato, la sua ex moglie gli ha rivelato che la loro amatissima figlia in realtà non è sua, e sua madre è smarrita nelle nebbie della demenza. Tutti i suoi punti di riferimento sono svaniti all’improvviso e Jónas non sa più chi è. Nemmeno il ritrovamento dei suoi diari di gioventù, pieni di appunti su formazioni nuvolose, corpi celesti e corpi di ragazze, lo aiuta: quel giovane che era oggi gli appare come un estraneo, tutta la sua esistenza una menzogna. Comincia a pensare al suicidio, studiando attentamente tutti i possibili sistemi e tutte le variabili, da uomo pratico qual è. Non vuole però che sia sua figlia a trovare il suo corpo, e decide di andare a morire all’estero. La scelta ricade su un paese appena uscito da una terribile guerra civile e ancora disseminato di edifici distrutti e mine antiuomo. Jónas prende una stanza nel remoto Hotel Silence, dove sbarca con un solo cambio di vestiti e la sua irrinunciabile cassetta degli attrezzi. Ma l’incontro con le persone del posto e le loro ferite, in particolare con i due giovanissimi gestori dell’albergo, un fratello e una sorella sopravvissuti alla distruzione, e con il silenzioso bambino di lei, fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno…

Il tempo di formazione delle cicatrici varia a seconda dei casi, così come varia è la loro profondità. Alcune cicatrici sono più profonde di altre.

All’Hotel Silence il protagonista spera di trovare finalmente la giusta risoluzione, di riuscire a lasciarsi tutto alle spalle, senza dimenticare conti in sospeso o senza farsi distrarre dalla vita che si sforza di ricordargli quanto sia importante continuare a vivere.

L’edificio si presenta in tutta la decadenza, un po’ come Jónas, le assi di legno scricchiolano, gli sportelli cadono, è chiaro che l’hotel ha bisogno di manutenzione e di qualcuno che possa prendersene cura e qui il romanzo sboccia in tutta la sua bellezza, mostrando come alle volte per tornare a vivere basti semplicemente incrociare le persone giuste.

L’Hotel Silence è un reietto sopravvissuto agli orrori della guerra e i suoi ospiti mostrano al protagonista tutte le loro fragilità, i bagagli emotivi pesanti che si portano dietro da anni ed è aggiustando poco per volta ogni piccola cosa che si trova a domandarsi come sia possibile non riuscire a trovare il tempo per morire.

Un hotel diventa una metafora della vita quando lo sfiora la morte, ma soprattutto di rinascita, un nuovo punto di partenza che aiuta Jónas a vedere il mondo con occhi diversi, cogliendo le diverse sfumature di grigio che ci sono fra il bianco e il nero.

Il silenzio salverà il mondo, ma ciò che salva veramente una vita è il ricostruirla da zero, riportando agli antichi splendori tutte le cose che ci siamo lasciati alle spalle, un po’ come quando si restaura un vecchio orologio, bisogna lucidarne ogni parte e riparare ciò che si è rotto, riportandolo a ticchettare come faceva un tempo.

Gli orrori della guerra si intrecciano alla vita di Jónas che alla soglia dei suoi cinquant’anni si rende conto che la sua sofferenza, confrontata con quelle degli altri ospiti dell’hotel risulta di poca sostanza, ma allo stesso tempo è importante non lasciarla a sé stessa, ma accompagnarla verso un nuovo orizzonte.

“Hotel Silence” è un luogo inaspettato, dove il silenzio è la parola più tagliente che si possa udire fra le sue mura.

 

La casa del padre di Karen Dionne

Pagine: 307
Nonostante tutto, Helena Pelletier è riuscita ad avere la vita che voleva: un marito che ama, due figlie bellissime, un lavoro che le riempie le giornate. Finché, un giorno, un brutto giorno, sente un annuncio alla radio, e capisce di essere stata un’ingenua a credere di poter dimenticare il passato. Perché lei ha un segreto. Qualcosa che non ha rivelato neanche al marito, qualcosa che ha a che fare con la sua infanzia, con quella madre famosa suo malgrado, e con il padre la cui casa non era altro che una capanna nei boschi del Michigan. È lì che Helena ha vissuto i suoi primi dodici anni, nella foresta, senza luce né acqua corrente, senza un’anima a parte loro tre. E ha amato quella vita selvaggia, il fiume, la caccia, ha amato suo padre, quel padre brutale e amorevole a un tempo che le ha insegnato tutto quello che sa. Quel padre dal quale è dovuta scappare e che è finito in prigione. Sono passati quindici anni quando Helena sente alla radio che lui è evaso, e sa di essere in pericolo, proprio come tanti anni fa. Soprattutto sa di essere l’unica al mondo a poterlo catturare di nuovo.

“Se vi dicessi il nome di mia madre, lo riconoscereste al volo. […] E poi vi chiedereste che fine ha fatto… ma solo per un attimo, perché ormai sono passati gli anni in cui le persone si interessavano a lei. […] Però no, il suo nome non ve lo dico. Perché non è la sua storia, questa. È la mia.”

Se c’è una cosa che l’autrice mostra è come spesso i figli di assassini o personalità deviate paghino per i peccati dei padri, un po’ per l’ignoranza delle persone mosse dalla paura e un po’ perché quei peccati sono talmente grandi da pesare sulle spalle degli eredi, impedendo loro di farsi una vita come vorrebbero. In qualsiasi modo la si veda, il passato torna sempre e comunque a bussare alla loro porta, i documentari, programmi televisivi, film e romanzi ne sono spesso la prova.

Questa lettura si è rivelata una vera chicca, sono perciò felice che il mio approccio con Karen Dionne sia stato positivo e non vedo veramente l’ora di leggere qualcos’altro di suo.

Uno dei motivi per cui vale la pena leggere questo thriller psicologico è lo stile, la penna abile della sua autrice che riesce a dipingere in maniera vivida e precisa il ritratto di una donna che affoga in una situazione familiare nera come la pece.

Il viaggio di Helena, il nostro viaggio, è intenso, carico di emozioni contrastanti che rendono la lettura piacevole per gli occhi e ottima per la mente. Ho letto diversi thriller psicologici ma quelli che preferisco sono come questo, che non si disperdono nel fascino del genere, ma che restano ancorati a terra e approfondiscono in maniera curata e precisa l’argomento di cui trattano.

La casa del padre è un luogo selvaggio dove per sopravvivere è necessario diventare predatore per non essere più una preda.

 

Sabbie mobili di Malin Persson Giolito

Pagine: 449

Stoccolma, il quartiere più elegante. Nella classe di un liceo cinque persone sono a terra, colpite da una raffica di proiettili. Accanto a loro, Maja Norberg: diciotto anni appena compiuti, brava studentessa, popolare, ragazza di buona famiglia. Tra le vittime ci sono il suo fidanzato, Sebastian Fagerman, il figlio dell’imprenditore più ricco di Svezia e la sua migliore amica, Amanda.
Nove mesi dopo, il processo sta per cominciare. Maja è accusata della strage e ha trascorso un lungo periodo in custodia cautelare. I giornali non le hanno dato tregua, nessuno crede alla sua innocenza, la ragazza della porta accanto si è trasformata nella teenager più odiata di Svezia.
Peder Sander, l’avvocato difensore, ha il difficile compito di mettere in discussione quello che ormai sembra scontato per tutti, la colpevolezza della ragazza, e di fare emergere la verità di Maja. Che cosa ha fatto? O, forse, è quello che non ha fatto ad averla condotta a questo punto?
Attraverso la voce di Maja, irriverente, dura, unica, ripercorriamo i fatti fino ad arrivare a quel terribile giorno. L’incontro con Sebastian, un amore malato e totalizzante, feste, tradimenti. E, mentre il racconto prosegue, si sgretola la facciata rassicurante di una comunità agiata in cui gli adulti si voltano dall’altra parte per non vedere i loro figli che – tra violenza, tensioni razziali e problemi di droga – affondano sempre di più nelle sabbie mobili.

La cosa più grande è l’amore, dicono. Ma non è vero. Perché la cosa più grande è il terrore, la paura di morire. L’amore non significa niente quando credi di essere sul punto di morire.

Si intitola “Sabbie Mobili” e devo ammetterlo, mai titolo fu più azzeccato, infatti il processo a cui viene sottoposta la protagonista sembra quasi inghiottirla inesorabilmente, un po’ come se stesse sprofondando nel terreno senza alcuna possibilità di rimanere in superfice ed è questa caratteristica a rendere il romanzo originale, soprattutto in un momento così delicato e cruciale riguardo al tema degli attentati nelle scuole.

Spesso e volentieri notizie di questo genere catturano immediatamente la nostra attenzione per l’elevato numero di vittime causate dalla follia di pochi secondi, uno squilibrio che si esaurisce quasi sempre con la morte di chi l’ha causato. Gli attentatori sono come dei Berserker, mossi da una rabbia infinita che li acceca totalmente e li rende suscettibili ad ogni sospiro, accentuando in maniera esponenziale la folle violenza che hanno deciso di infliggere su chiunque gli capiti a tiri.

Queste persone si trasformano in veri e propri carri armati, concentrati di violenza pura che non fanno più distinzione fra chi ha cercato di aiutarli e i loro veri bersagli, coloro che li hanno messi alle strette una volta di troppo, ponendoli di fronte alla realtà in cui solo con la violenza si può rispondere alla violenza.

Le sabbie mobili oltre a inghiottire qualunque cosa capiti a tiro mostrano anche diverse sfaccettature di un essere umano, un animale complesso che non basa la sua esistenza sul puro semplice istinto o sulla sensazione, ma che quando lo fa esplode e ogni sua azione genera un’onda d’urto capace di devastare la vita di tutti coloro che gli sono vicini.

Mi sono chiesta cosa avrei fatto se fossi stata al posto di Maja e devo dire che non è facile rispondere. Non c’è una risposta giusta o una sbagliata, non esiste un giusto insegnamento che ci aiuta a compiere una scelta in situazioni così estreme. È come quando ti chiedono di scegliere fra le due persone a cui tieni di più e ti ritrovi a non sapere cosa fare, e forse l’unica risposta possibile è abbracciare la paura e lasciare che l’istinto prenda il sopravvento.

Sin dall’inizio Maja appare sfiduciata come se sapesse quale sia la sua sorte prima che il verdetto venga emesso, ma è quando il processo giunge alla fine che si rende conto di voler vivere, costruire un futuro e dimostrare che quel giorno ha dovuto semplicemente prendere una decisione, anche se ha significato perdere tutto ciò che aveva, veder morire persone della sua stessa età e rendersi conto che le persone a cui si tiene di più sono sempre quelle che mostrano un altro volto, deludendoti.

Sebastian e Amanda erano due volti conosciuti, due persone sulle quali Maja credeva di poter contare, ma quando il primo ha cominciato a mostrare segni di squilibrio è rimasta soltanto la sua migliore amica, eppure senza rendersi conto anche lei alla fine ha scelto di distaccarsi, e il resto, come si suol dire, è storia.

“Sabbie Mobili” è come la vita che a un certo punto decide di inghiottirti, lasciandoti in bilico fra il mondo reale e quello dei morti, alla disperata ricerca di un appiglio per riemergere.

Per questo appuntamento è tutto!
Alla prossima!

May the Force be with you!
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